Coronavirus vs Velo di Maya

La pandemia ci ha sottratto dal tessuto connettivo/competitivo sociale, ci ha costretti (e quindi giustificati) alla nullafacenza, alla pigrizia casalinga, all’assenza di obiettivi: aziendali, sociali, esistenziali. Un sospiro di sollievo che presto si è tramutato in inquietudine quando le sue conseguenze hanno svelato le più grandi contraddizioni e incoerenze sulle quali si basa la nostra società. In tutti i campi abbiamo lacerazioni del velo di Maya, dalla ricerca scientifica alla questione del mezzogiorno, passando per l’incubo delle crociere, ma l’impatto più pervasivo (almeno dal mio punto di vista, guardando anche le persone che mi circondano) è l’evidenza della nostra palese futilità: una condizione ontologicamente mai abbandonata, eppure riscoperta con sorpresa, tanto eravamo impegnati a fingere di abitare un mondo altro, dove tutto era urgente e importante, un’immagine virtuale di noi stessi da sfruttare, ottimizzare, mentre ora la realtà fisica (chimica, medica) delle cose torna a ribadire la propria priorità, a partire dalle esigenze più astratte. Dobbiamo quindi tornare a convivere con il nostro corpo fisico, un organismo in decadimento più o meno rapido, e con la nostra esistenza, più o meno vuota, una volta privata delle attrazioni/distrazioni della società.

A prescindere dai temi esistenziali, è sempre più evidente la nostra futilità anche a livello sociale: la maggior parte dei nostri lavori sono avulsi dal bene comune (a volte persino contrari), e proseguono (o proseguivano) nella loro agonizzante esistenza per inerzia o per il cosiddetto bene d’impresa, un bene per conto terzi che ha edificato la nostra società su una costruzione di assurdità per la quale il lavoro in sé è divenuto un (il) bene (“beato te che c’hai un lavoro”), al posto del sostentamento derivato da esso o della sua utilità sociale. Nel frattempo uno dei nodi più importanti portati al pettine da questa situazione emergenziale riguarda proprio i beni primari, quelli di cui il nostro corpo fisico non può fare a meno: i supermercati vuoti riflettono la nostra angoscia più profonda, la paura primordiale (e nella maggior parte dei casi mai affrontata prima) della fame, mentre la crisi dei braccianti agricoli evidenzia ancora una volta le storture di un mercato del lavoro dove il profitto e gli stipendi (e la posizione sociale) sono inversamente proporzionali all’importanza e all’utilità del lavoro stesso, oltre alla collegata e non trascurabile ipocrisia legata alle migrazioni e ai permessi lavorativi.

Nonostante il probabile desiderio di molti di un ritorno alla cosiddetta normalità, forse dovuto dallo stesso timore per quella realtà svelata, così atroce nella sua concretezza (e finitezza), io mi auguro che quella normalità non torni mai più. Sfruttiamo il tempo rinchiusi senza vie di fuga, geografiche o sociali che siano, per venire a patti con noi stessi, per comprendere a pieno la nostra futilità intrinseca, compiendo quindi la più grande rivoluzione suggerita dalla pandemia e dall’isolamento. Ripensiamo alla nostra esistenza sia come singoli esseri umani sia come collettività, che riesce a non essere dannosa per se stessa solamente nell’inattività. In questo modo la società prossima futura forse non potrà costringerci negli stessi ruoli da teatro dell’assurdo, nel perpetramento di una menzogna sempre più evidente e maligna mano a mano che la finzione viene portata alle sue estreme conseguenze, fin troppo reali (la pandemia è una di queste).
Oltre a una  facile deriva autoritaria, le conseguenze fuori dalla portata del singolo saranno molte e irreversibili.  Torneremo senza dubbio a trovarci assieme fuori, al parco, a correre, ma dubito fortemente che torneremo a viaggiare e lavorare come prima, non torneremo alle libertà (per quanto già ridotte) di “prima”, una vita che ci apparirà ingenua come quella pre-2001, quando negli aeroporti non c’erano i body scanner, le file per i controlli di sicurezza, quando non riecheggiavano continuamente gli avvisi sui bagagli incutoditi, anomalie a cui ci siamo abituati come ci abitueremo al nuovo controllo pervasivo della mobilità. I viaggi stessi probabilmente torneranno a essere un lusso, di nuovo percepito come tale, forse il turismo di massa e la grande distribuzione verranno intaccati da questa crisi e dalle prossime, con effetti benefici e non da giudicare a posteriori. Ci abitueremo anche all’ennesimo stravolgimento del cosiddetto mondo del lavoro, animale ferito che non molla la morsa sui nostri debiti e sui nostri stati sociali. Forse, e dico forse, il contraccolpo della pandemia ci impedirà anche di tornare ad accelerare verso la prossima fine del mondo, del mondo come lo conosciamo, del mondo adatto all’essere umano, o forse ci rallenterà solo un poco, prima di lasciare libero sfogo all’ultima grande corsa dei consumatori di tutto il mondo.