Fallimento IV

Vecchia terra, mentito anche troppo, l’ho vista, ero io, con i miei altrui occhi grifagni, è troppo tardi. Sta per essere sopra di me, sarò io, sarà lei, saremo noi, non eravamo mai stati noi. Non sarà domani forse, ma troppo tardi. Sarà presto, quando la guardo, e che rifiuto, quando mi rifiuta, la tanto rifiutata. È un anno da maggiolini, l’anno prossimo non ce ne saranno, e neanche l’anno successivo, guardali bene. Torno la notte, volano via; lasciano la mia piccola quercia e se ne vanno, sazi tra le ombre. Tristi fummo ne l’aere dolce. Torno, alzo il braccio, afferro il ramo, mi metto in piedi ed entro in casa. Tre anni nella terra, quelli che sfuggono alle talpe, poi divorare, divorare, per dieci giorni, quindici giorni, e ogni notte il volo. Sino al fiume, forse, si dirigono verso il fiume. Io accendo, spengo, vergognoso, resto in piedi davanti alla finestra, vado da una finestra all’altra, appoggiandomi ai mobili. Per un momento vedo il cielo, i diversi cieli, poi diventano volti, agonie, i diversi amore, gioie anche, ce ne sono anche state, disgraziatamente. Momenti di una vita, della mia, tra altri, ma sì, dopotutto. Gioie, che gioie, ma che morti, che amori, sul momento l’avevo saputo, era troppo tardi. Ah amare, morendo, e veder morire, gli esseri presto cari, ed essere felici, perché ah, non vale la pena. No ma ora, solo restare qui, in piedi davanti alla finestra, una mano sul muro, l’altra aggrappata alla camicia, e guardare il cielo, un po’ a lungo, ma no, singulti e spasimi, mare di un’infanzia, di altri cieli, un altro corpo.


[Samuel Beckett, Fallimento IV (Foirade IV) da Racconti e prose brevi, 1950, trad. Edda Melon, Giulio Einaudi Editore 2010, p.255]

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