Il tempo — così disse Austerlitz nell’Osservatorio di Greenwich — è, fra tutte le nostre invenzioni, senz’altro la più artificiosa e, nel suo essere vincolata ai pianeti che ruotano intorno al proprio asse, non meno arbitraria di quanto lo sarebbe ad esempio un calcolo basato sulla crescita degli alberi o sul periodo impiegato da una pietra calcarea per disgregarsi, a prescindere poi dal fatto che il giorno solare, in base al quale ci regoliamo, non fornisce una misura esatta, sicché noi, anche al fine di calcolare il tempo, siamo stati costretti a escogitare un immaginario sole medio, la cui velocità di rotazione non cambia e che, nella sua orbita, non è incinato verso l’equatore. Se Newton riteneva, disse Austerlitz — e intanto indicava attraverso la finestra l’ansa del fiume che, luccicante nell’ultimo riverbero del giorno, abbracciava la cosiddetta Isola dei cani —, se davvero Newton riteneva che il tempo fosse un fume come il Tamigi, dov’è allora la sorgente del tempo e in quale mare esso sfocia alla fine?
[W. G. Sebald, Austerlitz
trad. Ada Vigliani, Adelphi 2002, p. 112]