non ce l’ho con il romanzo di Targhetta, che ha tutta la mia simpatia per aver scritto un romanzo aziendale mentre la maggior parte dei soggetti dei romanzieri sono (inevitabilmente?) legati a un mondo culturale che io vedo sempre da lontano e tanto impenetrabile quanto ininfluente, da un certo punto di vista, lo uso solo per fare un ragionamento sulla scrittura
è leggendo questo romanzo che ho messo a fuoco una delle mie idiosincrasie, o al contrario una delle mie preferenze per i romanzi che situano il narratore: si pongono il problema di chi è, dov’è, perché (mi viene in mente Il capo di Pacifico, ad esempio), sia in ottica postmoderna (Il nome della rosa) che non. con un narratore onniscente in terza persona, che si avvicina alternativamente ai vari personaggi, la scelta più facile forse, si crea un romanzo che mi sembra novecentesco, poi penso a Svevo, Proust, Bulgakov allora dico ottocentesco addirittura, poi penso a Dostoevskij e allora forse non dovrei dire catalogarlo rispetto al tempo. un romanzo in terza persona può comunque situare il narratore, esplicitarlo, farlo empatizzare con un personaggio in particolare, esplicitare il proprio ruolo narrativo, credo.
il problema della “situatezza” (una terminologia forse più filosofica ma che mi sembra si presti) della scrittura (non soltanto in prima persona) mi sembra si ripresenti in particolare con quelle frasi apodittiche e generalizzanti che spesso mi fanno storcere il naso, a prescindere dal mio concordare o meno con esse, tipo (non vado a cercare esempi concreti) “gli uomini fanno sempre xxx” o ancora peggio “gli uomini dopo una certa età sono xxx”. slanci generalizzanti che accetto di più se so da dove vengono, mi danno più fastidio se sembrano provenire dal nulla di un narratore onniscente mai connotato o esplicitato.
altro problema della connotazione e della confusione: nonostante il tema informatico-aziendale e il lessico adeguato al tema ogni tanto ci sono sbalzi lirico-lessicali che stonano appunto per il contesto, chi li dice e perché?
un altro problema: questa storia sembra ambientata negli anni ’00 più che negli anni ’10, non tanto per le tecnologie usate in azienda o per il lessico che invece mi sembra allineato, quanto per tutto il resto: non esiste una vita online, non ci sono riferimenti se non a whatsapp, non ci sono social network, forum, piattaforme niente. una vita talmente concreta che questa sì sembra provenire da un romanzo novecentesco. qui l’attenuante è l’evidente difficoltà di rappresentare quella vita, di mettere in scena qualcosa di così immateriale come la vita online, ma in un contesto simile, di nuovo, stona, o salta all’occhio quantomeno.
infine: questo realismo è un non-realismo fin troppo evidente. anche a partire dai personaggi un po’ troppo stereotipati, così come le situazioni, cinematograficamente costruite, e per cui funzionanti, ma per cosa? per un film, per una serie tv, ma dov’è il romanzo? ovvero: dov’è il narratore? nell’audiovisivo l’autore è (quasi) sempre nascosto, tant’è che i vezzi registici troppo evidenti sono spesso indicati come difetti, ma nei romanzi questa invisibilità non mi sembra funzioni allo stesso modo, a meno che forse non funzioni davvero e fin dall’inizio si metta il lettore nella condizione (pre-moderna? post-moderna?) del “ti racconto una storia”.
non ho risposte o teorie definitive, ci sono sicuramente controesempi per ogni teoria totalizzante, ma in questo caso il problema del narratore mi è balzato particolarmente all’occhio, forse anche per i problemi succitati e se fosse stato davvero invisibile non ci avrei pensato così tanto. rimane la mia predilezione per i romanzi (o i racconti) il cui narratore (non per forza in prima persona, ma perché no?) si situa/esplicita.