Esercizi di stile: massimalista

Esco e prendo la bicicletta, vecchia, arrugginita, ereditata dagli inquilini precedenti. La volevano buttare via, ma dopo essere passata per le mani di mio padre (come ama lui le biciclette, nessuno), mi è tornata più che comoda, trasportandomi quotidianamente al lavoro, esattamente come ora. Non che faccia tutto da sola, mi tocca sempre di pedalare e schiumare nel mio cappotto invernale a quindici strati, ma meglio che prendere un’auto (coi costi che ne conseguono) o i mezzi pubblici (vedi sopra). C’è da dire che d’inverno qualche dubbio mi viene. Ma fa niente, per sopportare il freddo mi copro bene e ascolto Elio e le storie tese, che mi distraggono quel tanto che basta a non pensare ai pedali cigolanti, le ruote sgonfie (mi scordo sempre di gonfiarle), il freddo che mi taglia la faccia e le mani. E poi abito vicino e appena arrivato in ufficio mi tolgo il summenzionato cappotto anti-tutto, i guanti, la sciarpa e il berretto, e aspetto di raggiungere un equilibrio con la temperatura interna dell’edificio, sbollendo un po’ sulla sedia. Di solito. Perché stamattina non faccio in tempo a sedermi che vengo chiamato dal capo reparto. Ora, sul capo reparto potrei scrivere un romanzo intero, senza raccontare alcunché, e potrebbe farlo anche lui, se solo sapesse scrivere. Lo guardo cianciare un po’, aggrovigliarsi nelle sue stesse frasi senza punteggiatura, nei periodi senza concordanza logica o grammaticale, nelle parentesi aperte e mai più chiuse, se non che a un certo punto si ferma (forse rendendosi conto egli stesso della propria peregrinazione verbale senza meta) e mi butta lì la classica, maledetta frase da ergastolo immediato (il mio): “vedi un po’ tu cosa puoi fare”.
In questo caso le soluzioni sono due, ma una delle due prevede il suddetto ergastolo. Mi limito quindi a chiedere delucidazioni, cercando di circostanziare il più possibile le mie domande, precise come un bisturi, intente a rimuovere tutto ciò che non mi è utile alla comprensione dei desideri del capo reparto. Il modo più semplice sarebbe rimuovere il capo reparto stesso, ma anche questo non è possibile, quindi mi limito a comprendere i desiderata: un’analisi tecnica dettagliata dell’ultima applicazione software acquistata dalla nostra azienda. Lo ripeto ad alta voce per averne conferma e quello inizia ad apparire un po’ scocciato della mia pedanteria, così prendo su e me ne vado, conscio (io, non lui) dell’immane lavoro richiesto, se solo non avessi altri mezzi a disposizione. Fare reverse engineering di un app proprietaria di cui non ho alcun documento se non un contratto (forse) e un paio di contatti sarebbe un’impresa improba anche se non improbabile, ma più che altro sarebbe un’impresa inutile e una gran perdita di tempo. Proprio perché un paio di contatti li ho (e se non li avessi avuti, li avrei cercati).
Non sto a elencare il giro di mail fatto, né il numero di partite a Ruzzle svolte nell’attesa paziente delle risposte (anche i dipendenti della software house avranno i loro lavori o le loro partite a Ruzzle da fare). Come prevedibile, il programmatore referente mi conferma di avere già a disposizione un’analisi tecnica dettagliata, solo di non averla ancora inviata alla mia azienda, in quanto non richiesta esplicitamente dal contratto. Come di consueto, mi spertico nei ringraziamenti e nelle lodi, anche se non ce n’è un gran bisogno, che fra sottomessi ci si comprende. Una volta arrivatami la mail con allegata la fin troppo citata analisi tecnica (un pdf di 47 pagine), leggo velocemente l’indice del documento e le parti che ritengo più interessanti, caso mai il capo reparto avesse la prontezza di fare qualche domanda (cosa di cui dubito fortemente).
Mi allaccio le scarpe, controllo l’orologio (le 12.24, quasi ora di andare in pausa pranzo), faccio un’ultima partita a Ruzzle, poi giro l’allegato al mio capo reparto. Non attendo che sia lui a chiamarmi, ma mi reco di persona nel suo ufficio, facendo un percorso che solo nella mia testa è parallelo a quello della mail inviata dal mio pc al suo (quando in realtà quel numero finito di 0 e 1 di cui è composto il mio “lavoro” è passato per la rete e i server aziendali, facendo un percorso molto più lungo del mio ed è arrivato comunque molto prima di me).
Quando mi affaccio all’ufficio del capo reparto, quello si è appena accorto della mia mail (non so come sia possibile, ma questa scena si ripete ogni volta che invio qualcosa al mio capo e poi vado a confermargliene l’invio di persona, come se in realtà la velocità della mia mail e delle mie gambe fosse esattamente la stessa) e alza la testa con segno di approvazione.
Mi ringrazia per il lavoro svolto e per la mia celerità. E non credo mi stia prendendo per il culo.