Paolo Nori

Sono convinti

Mi piace rovistare nei libri usati, più per la possibilità di sorprendermi che per motivi prettamente economici, per questo Napoli e le sue vie dei libri sono fantastiche. Fatto sta che, fra gli altri, ho preso un libro di Paolo Nori edito da Marcos y Marcos e l’ho iniziato a leggere quasi subito (altro grande piacere quasi dimenticato, in epoca di ordini e recuperi dilatati nel tempo, biblioteche che si riempiono asincrone e libri che si accumulano sul comodino).
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Stimoli

Prima di pranzo ho sfruttato il terrazzo per l’ultima volta forse (abbiamo i muratori in casa), finendo di leggere Pubblici discorsi di Paolo Nori.
Ci sono autori (dovrei dire libri, ma dico autori) che mi stimolano molto, e mentre li leggo, o subito dopo, non riesco a stare fermo con la testa, i pensieri si accumulano, le riflessioni, le idee sorgono spontanee. Questi autori (Auster, DeLillo, Bernhard e altri, anche Nori) mi danno soprattutto stimoli. Stimoli a leggere e scrivere altro. Persino sul blog, che ultimamente stava perdendo un po’ d’attrattiva.
E quindi ci scrivo.

Esercizi di stile: Learco Ferrari, o quasi

Vado all’ufficio con la bicicletta, e intanto ascolto gli Offlaga Disco Pax, che io non so mica da dove viene questo nome, ma mi piace molto, perché mi ricorda un vecchio discorso, che ogni tanto faccio qualche discorso, anche pubblico, incredibile, non lo direbbe nessuno, e insomma una volta ho fatto questo discorso a Offlaga, che chissà, magari anche loro, quelli che suonano negli Offlaga Disco Pax, sono di Offlaga.
Quando arrivo, guardo quella lavagna di fianco al mio posto di lavoro, che c’ho scritto du kannst mich mal, che in russo l’avevo già scritto in un altro libro, Le cose non sono le cose, si chiama così quest’altro libro, e non posso scriverlo ancora, che se no dopo capiscono.
Learco, mi chiama il capo, che io questo qui non lo posso proprio vedere, ma le bollette di casa mi arrivano tutti i mesi, quindi devo andare a parlare con il capo, che poi si chiama Mastrangeli, ma non mi piace neanche come si chiama, devo andarci insomma, quando mi chiama.
E mi fa tutto un discorso sconclusionato, che io aspetto e lo guardo così, senza dire niente, fino a che non mi guarda anche lui così, senza dire niente, e rimaniamo un po’ così, tutti e due, senza dire niente. Poi lui mi dice: Learco, vedi un po’ tu cosa puoi fare.
Cosa vuoi che posso fare.
Torno di là, nella mia scrivania, e guardo un altro po’ la scritta che c’ho fatto sulla lavagna, che tutti pensano che sia una citazione da un libro tedesco, perché ho finito quelle dai libri russi. Invece mi metto lì e lo trovo anche quella roba là che mi ha chiesto Mastrangeli, ma non c’ho molta voglia di portargliela. Però siccome che le devo anche pagare quelle bollette che mi arrivano a casa tutti i mesi, torno di là da Mastrangeli e gli dico che l’ho trovata quella roba là che mi aveva chiesto.
E lui mi ha detto: sei stato anche veloce, Learco.
E io ripenso alla scritta, quella sulla lavagna, di fianco al mio posto di lavoro.

Un posto carnascialesco

Io pensavo essere in una situazione che te t’immagini che sei nel posto della malattia che quando esci da quel posto lì ti trovi nel posto della salute, invece sei nel posto della salute che quando esci da quel posto lì ti trovi nel posto della malattia.
Star lì in ospedale, mi dice Mario, sei venuto fuori proprio privo del minimo senso dell’umorismo. Sei forse lettone, di origine? mi chiede.
Eh, gli dico, forse c’è il caso.

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Mi dispiaceva

Eco doppler, eco doppler transcranica, eco doppler cardiaca, raggi al collo, esami del sangue per il colesterolo, esami dell’urina, esami del sangue venoso, holter, due visite neurologiche, una visita cardiologica, risonanza magnetica con contrasto, avevo fatto tutto, e la maggior parte di questi esami ero dovuto andare una volta all’ospedale per farli e una volta per ritirare gli esiti, e se ci aggiungiamo un numero imprecisato di rilevazioni della pression, quello era un periodo che io, che eran degli anni che non andavo dal dottore, avevo recuperato, in quel mese e mezzo lì, tutto il tempo che avevo perso e per me, in quel mese e mezzo lì, curarmi era diventato un mestiere, come avere un part time, ero invecchiato, non c’era niente da fare, ero invecchiato, e così come, quando avevo quindici anni, qualsiasi giorno era buono per innamorarmi o, quando ne avevo trentatré e con la mamma di Daguntaj avevamo deciso di provare a fare un bambino, qualsiasi giorno era buono per generare un bambino, ecco, adesso, in quel mese e mezzo lì, avevo scoperto che qualsiasi giorno era buono per morire, e avevo l’impressione, non so come dire, che mi dispiaceva.

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Troppo lungo

Io, diversamente da Paride, a me prima di adesso non mi era mai venuto in mente, di scrivere un libro, un romanzo.
Invece Paride una volta mia veva confessato che lui avrebbe voluto scriverlo, un romanzo.
«Ce l’ho tutto in testa» mi aveva detto «per il momento ho scritto solo il titolo. Lo vuoi sapere?» mi aveva chiesto.
«Dimmelo» gli avevo detto io.
«Il modo che le cantanti americane cantano l’inno americano al superbowl, che sembra sempre che si stan per cagare addosso.
«È troppo lungo?» mi aveva chiesto.
«Eh» gli avevo detto io.

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