Infine l’ultima delle compensazioni al livellamento del linguaggio, la più importante e anche la più inattesa, è la comparsa della letteratura. Della letteratura in quanto tale, poiché a partire da Dante, da Omero, è pur sempre esistita nel mondo occidentale una forma di linguaggio che noialtri oggi chiamiamo “letteratura”. Ma il termine è di fresca data, come recente è altresì nella nostra cultura l’isolamento d’un linguaggio particolare la cui modalità propria è di essere “letterario”.
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La letteratura è la contestazione della filologia (di cui pure è la figura gemella): riconduce il linguaggio della grammatica al potere spoglio di parlare, e ivi incontra l’essere selvaggio e imperioso delle parole. Dalla rivolta romantica contro un discorso immobilizzato nella sua cerimonia, fino alla scoperta mallarmeana della parola nel suo potere impotente, appare chiaramente quale fu, nel XIX secolo, la funzione della letteratura nei confronti del modo d’essere moderno del linguaggio. Sullo sfondo di tale gioco essenziale, il resto è effetto: la letteratura si distingue sempre più dal discorso di idee, e si chiude in una intransitività radicale; si stacca da tutti i valori che potevano nell’età classica farla circolare (il gusto, il piacere, il naturale, il vero), e fa nascere nel proprio spazio tutto ciò che può garantirne il diniego ludico (lo scandaloso, il brutto, l’impossibile).
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Nel momento in cui il linguaggio, in quanto parola diffusa, diviene oggetto di conoscenza, eccolo riapparire sotto una modalità rigorosamente opposta: silenziosa, cauta deposizione della parola sul candore d’una carta, ove la parola non può avere né sonorità né interlocutore, ove non ha nient’altro da dire che se stessa, nient’altro da fare che scintillare nel bagliore del suo essere.
[Michel Foucault, Le parole e le cose, 1966,
trad. Emilio Panaitescu, RCS Libri 1998, pp. 373-374]