favola didascalica

«Una nave gigantesca attraversa la costellazione di Orione, ha le luci schermate, non è voluta da nessun Dio, ma nemmeno non voluta; non è accompagnata da nessun Dio, ma nemmeno ostacolata — diciamo pure: non è nota a nessun Dio. Nemmeno noi sappiamo di dove viene, ammesso che venga da qualche posto; verso quale meta si diriga, ammesso che si diriga verso qualche meta. Ci sono svariati motivi che inducono a pensare che sia superfluo nominare la nave, perché, presto o tardi, si sarà dissolta nelle tenebre, come tutte le sue simili, e dunque sarà stata soltanto come se non fosse mai stata. Tuttavia — e ciò è l’unica cosa della nave che ci è nota con sicurezza —, tuttavia le pareti delle cabine sono tappezzate di regole che costituiscono l’ordinamento di bordo, cioè di regole che sono state sanzionate da qualcuno che a sua volta non è stato sanzionato; ma non si può negare che sono queste regole a permettere che a bordo la vita brulicante si svolga assolutamente senza intoppi.
Si domanda: “Queste regole sono vincolanti?”»

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aspettiamo

Il motto che si sarebbe potuto mettere in bocca a tutte le fiture di desperados (Faust compreso), sarebbe stato «Non abbiamo più nulla da aspettare, dunque non restiamo». Estragon e Vladimir, invece, usano «forme di inversione» di questo tenore: «Restiamo, – sembrano dire – dunque aspettiamo». E: «Aspettiamo, duque abbiamo qualche cosa da aspettare».
[…]
La scena «Estragon gioca a togliersi e mettersi le scarpe» significa, nella sua inversione: «Anche i nostri giochi sono un togliersi e mettersi le scarpe», sono spettrali, sono un far finta di fare. Anzi, in conclusione, ruotando di 180°, la scena significa addirittura: «Il nostro reale “toglierci e metterci le scarpe”, ossia la nostra vita quotidiana, non è altro che un gioco, è grottesca, futile, ed è dovuta soltanto alal speranza di passare il tempo». E: «Come per quei due, anche per noi la maledizione consiste nel lusso e nello squallore della futilità» — soltanto che i due clown sanno di giocare; noi no.

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rinunciato alla speranza

Quando la borghesia del XX secolo cominciò a rinunciare alla fede nel progresso, al «miglioramento» non si contrappose, per esempio, l’idea della «cattiva fine», ma l’idea che il presente è «l’Inferno» (naturalmente in senso più o meno metaforico). Ciò succedeva già con Strindberg; e da allora nulla è fondamentalmente cambiato (in Céline, in Kafka, nel giovane Sartre). Ma, se questi autori avevano già rinunciato alla loro speranza nel progresso, dipendevano però ancora in modo polemico da quella speranza. Incapaci di immaginare un futuro che non fosse «progresso», ora che non credevano più al progresso non cedevano più nessun futuro. Con il concetto di un «futuro migliore» buttarono via il concetto di futuro in genere.

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collaborare

A prescindere da pochi settori il nostro «fare» odierno non è che conformistico collaborare, dato che si svolge nell’ambito di complessi aziendali di cui non possiamo avere una visione d’insieme, ma che sono vincolanti per noi. Il tentativo di misurare la dosatura, il rapporto tra «attivo» e «passivo» in questo o quel «collaborare», di determinare dove cessa l’esser fatto fare e dove comincia il fare da sé, non darebbe alcun esito, come non lo darebbe quello di separare le componenti attive e quelle meramente reattive di un lavoro dell’addetto alla macchina svolto in perfetto accordo con i movimenti della macchina stessa. La distinzione ha ormai importanza secondaria, l’esistenza odierna dell’uomo non è perlopiù né solo «spingere», né solo «essere spinto».

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presunto sapere

Non si può negare che «sappiamo» quali sarebbero le conseguenze di una guerra atomica. Ma lo «sappiamo» soltanto. E questo «soltanto» indica che il nostro «sapere» resta estremamente vicino al non sapere o almeno al non capire; molto più vicino a quest’ultimo che non alla comprensione. Seppure non gridiamo addirittura «lo so, lo so!» per non doverne sapere di più, per carità, e per poterci rifugiare nell’ignoranza, protetti dall’alibi del presunto sapere.

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mezzo e scopo

È già gran tempo che il processo degenerativo della coppia concettuale «mezzo-fine» si andava preparando. Quali che siano state le fasi di questo processo, mezzo e scopo si sono oggi addirittura scambiati le parti: la fabbricazione di mezzi è diventata lo scopo della nostra esistenza.
[…]
Già il principio del laissez-faire presupponeva che la più sicura, anzi la sola garanzia di conseguire lo scopo finale stesse nello svolgimento non guidato, nella libera concorrenza di tutte le attività; che dunque fosse superfluo perseguire lo scopo ultimo (economico), perché questo sarebbe stato la sicura e naturale conseguenza di una specie di preordinata armonia delle molteplici attività. Non è escluso che questo collegamento di libertà (dell’iniziativa) e di fiducia (nel meccanismo preordinato dei mezzi) sia la radice più profonda dell’eclisse degli scopi oggi dominante.

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l’idea della moralità

Si aggiunga che quando un’organizzazione è in funzione, l’idea della moralità dell’azione viene sostituita da quella della bontà del funzionamento. Se tutto è «in ordine» nell’organizzazione di un’impresa e tutto funziona pulitamente, anche le sue prestazioni sembrano in ordine e pulite. E pulite non solo perché tutto il complesso funziona bene, ma anche perché il complesso preso nel suo insieme resta sottratto alla vista.

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il mondo postideologico

Il nostro mondo odierno è «postideologico», cioè: non ha bisogno di ideologie. Con ciò si vuol dire che non è necessario arrangiare retrospettivamente false concezioni del mondo, in contraddizione con il mondo, cioè ideologie, perché gli avvenimenti del mondo si svolgono già di per sé come uno spettacolo arrangiato. Dove la menzogna, a forza di mentire, diventa verità, la menzogna esplicita è superflua.

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il secondo assioma dell’ontologia economica

Il secondo assioma dell’ontologia economica è dunque: «L’inutilizzabile non è; o non merita di essere». La nostra epoca testimonia con sufficiente chiarezza che qualsiasi cosa, letteralmente, può venir dichiarata immeritevole di esistere, a seconda della situazione economica, e quindi di essere condannata e diventare scoria eliminabile: gli uomini non meno dei residuati atomici contaminati di radioattività.

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il modello esiste soltanto in funzione della riproduzione

All’inizio avevamo constatato che gli avvenimenti reali o presunti forniti a domicilio, proprio per questo essere forniti a domicilio, diventano merci, e precisamente merci in serie, dato che ogni avvenimento viene fornito a domicilio in innumerevoli esemplari. Il rapporto tra evento e trasmissione è dunque una sottospecie del rapporto specifico tra modello e merce riprodotta. Ma se si domanda quale dei due: modello o riproduzione, sia reale — «reale» in senso economico — la risposta sarà: la riproduzione, la merce riprodotta. Perché il modello esiste soltanto in funzione della riproduzione.

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