Berlinale 69

Un po’ in ritardo, qualche impressione di una Berlinale non troppo seguita e sentita, almeno da me.

Serpentário (Carlos Conceição)
Film sperimentale-autobiografico portoghese, dove un figlio cerca la madre tornata/rimasta in Angola, ripercorrendo anche visivamente/mentalmente le proprie origini e quelle del proprio paese, dal colonialismo in poi. A me il voice over non disturba affatto (vedi anche il prossimo film), gli effetti speciali cheap delle scene “spaziali” (non chiedete che all’inizio ho avuto qualche momento di deja-vu causa digestione) un po’ sí. Bello il finale con l’esplorazione di luoghi abbandonati dal grande fascino (ma sono di parte, e comunque non è Tarkowski) e un bel dialogo (anche se forse avrei voluto ancora più bello) con un pappagallo. Insomma, piaciuto ma avrei voluto fosse più bello per poter avere un altro film weird del cuore. Purtroppo non lo è.

Ut og stjæle hester (Hans Petter Moland)
Melodrammone scandinavo in concorso, molto classico. Si snoda fra più piani temporali (raccontati/introdotti molto poco modernamente, ma a me piacciono molto i racconti nei racconti), fra la solitudine di un vecchio Stellan Skarsgård (sempre bravo) e il ricordo di un’estate nella ruralità scandinava che fa quasi Call me by your name, anche se più tragica e controversa. Alla fine a me è piaciuto molto, paesaggi ovviamente splendidi, natura personaggio e sensibilità scandinava che in qualche modo mi toccano sempre.

La paranza dei bambini (Claudio Giovannesi)
Classico rise & fall mafioso, girato però dalla parte dei ragazzini, con la loro ingenuità, alla loro altezza in tutto e per tutto. Anche il fatto che il film si fermi un attimo prima del fall (o comunque di una carneficina di ragazzini) l’ho trovato molto azzeccato. Rimane che non ci trovo niente per cui strapparmi i capelli, e sullo stesso tema/schema mi aveva coinvolto di più La terra dell’abbastanza dei gemelli D’Innocenzo, visto sempre qui, l’anno scorso. Comunque solido e bravo Giovannesi a rimanere dall parte dei bambini, appunto, senza condiscendenza o sguardo superiore, anzi con molta empatia.

Anthropocene (Baichwal, Burtynsky)
Documentario il cui titolo dice tutto, diviso in capitoli/temi, ma per me non strutturato benissimissimo (nonostante sia stato sponsorizzato/supervisionato da scienziati della commissione che sta provando a far riconoscere/certificare l’antropocene come epoca geologica). Il dibattito seguente è stato più interessante del film stesso, e ne ha spiegato anche le encomievoli intenzioni, ma il film dovrebbe essere fruibile anche stand-alone. Si capisce il non voler fare un film eccessivamente didattico, colpire con immagini estetizzanti (vedi Planet Earth / Blue Planet), perché emozioni > spiegoni, ma secondo me manca davvero molto approfondimento. Forse sarebbe stato davvero meglio (anche come distribuzione?) puntare sulla serie, dividendo i temi in puntate, prendendo proprio quelle due sopra come esempio.

La arrancada (Aldemar Matias)
Documentario (di 60′) su di un’atleta cubana (e la sua famiglia) come paradigma di una società cubana indecisa sul proprio futuro, in contrasto con la generazione precedente. Il film è godevole, e ci può anche stare, ma la verità (che forse il regista non poteva sapere) è che lo stesso identico film si poteva girare in Italia: campi di atletica semidevastati, copertoni usati come traini, insicurezze classicissime per atleti di tutti i livelli, ma anche discorsi sull’emigrazione giovanile sentiti un milione di volte in qualunque provincia italiana. Ciò non toglie che, visti i temi, me lo sia goduto e che le protagoniste (l’atleta e la madre) sono due bei personaggi.

Shooting the mafia (Kim Longinotto)
Documentario su Letizia Battaglia che si allarga per abbracciare i decorsi mafiosi più famosi (maxiprocessi, bombe, Falcone e Borsellino) parallelamente alla vita (sentimentale, politica ed etica) della fotografa siciliana. Nonostante fossero temi ben noti a qualunque italiano, Letizia Battaglia è un personaggio clamoroso (e per niente esaurito in questo film) e, anche grazie a una ricerca di immagini e a un montaggio meticoloso (a parte qualche scelta musical stonata e un po’ troppo cliché, che però perdono), il risultato è emozionante e più che valido.
Probabilmente il film che più consiglio dei sei, assieme a quello svedese.