il macigno

Sopra la bella villa dove si conduce una vita spensierata un macigno pencola. Come mai non se ne curano? “Se non è caduto finora” dicono “che motivo c’è che cada in avvenire?”
In realtà non è rimasto immobile. L’anno scorso, forse a motivo del disgelo, ha fatto un piccolo scarto, una scivolatina, e una scarica di ghiaia e sassi è piombata sul tetto della villa. Poi si è fermato, ancora più sporgente e minaccioso.
“Meglio così” hanno detto “si è assestato, e poi, anche ammesso il pericolo, che c’è da fare?” “Si potrebbero mettere dei puntelli, per esempio. O fare una colata di cemento. Oggi si fanno dei lavori anche più difficili.”
“E i soldi?” ribattono ridendo. “E il tempo necessario? E poi chi ha voglia di arrampicarsi fin lassù e di lavorare sul limite del precipizio? Non solo: come escludere che dopo non sarebbe peggio? Per rassodare la piattaforma del macigno, magari si finirebbe a smuoverlo.” Ancora: “Se cadesse, è proprio stabilito che schiacci la villa? Chi lo sa. Potrebbe cadere un po’ più in qua o un po’ più in là, senza fare danni di sorta. E poi non sarebbe ora di piantarla con questa storia del macigno? Per carità, che menagrami. Se è proprio scritto che il disastro accada, pazienza. Intanto non amareggiamoci la vita”.
Ridono, giocano, mangiano, si ubriacano. Ogni tanto, nel pieno della notte, da altre parti della valle, giungono dei tetri tonfi, i vetri tremano. È segno che qualche pezzo di montagna si è staccato precipitando giù, può darsi che qualche casa ne sia rimasta spiaccicata. Ma oramai si è fatta l’abitudine. Nessuno batte ciglio a questi tuoni. Continuano a giocare, la sigaretta fra le labbra, poi vanno tranquilli a letto e si addormentano.


[Dino Buzzati, Il macigno (da In quel preciso momento)
Arnoldo Mondadori 1963, pp. 267-268]