L’ultimo rifugio

L’ultimo rifugio è la letteratura, le parole, le proprie parole.

Ho finito di leggere L’ultimo rifugio di Kertész (2016) e non riesco a farne un discorso organico (come non è un libro organico), quindi spunti, appunti, pensieri liberi, forma che si specchia nella forma.

* Il fascino della forma diario. Inseguita, mai realizzata. Il mio primo pensiero e sarà anche l’ultimo. Perché? La catalogazione, la memoria scritta, intrusione nei pensieri altrui. Ricerca di narrazione anche nel ripetersi delle piccole cose. Narrazione in quanto vita e viceversa. Il permanere, la ricerca di un senso. In questo caso fascio voyeuristico (vicinanza senza contatto) dell’inevitabile declino, vecchiaia, consapevolezza.

* Interrogazioni, tentativi, fallimenti, cambi di prospettiva e persona, vari livelli di narrazione, narrazione come ultimo scopo di/costituente della vita. Auster, Beckett, Bernhard. Altra mia grande fascinazione per questi meccanismi metaletterari, tipicamente mitteleuropei. E i postmoderni americani? Metodi simili, ma sapori diversi, Auster come congiunzione dei mondi.

* Riflessioni sulla letteratura mentre si sta producendo letteratura. Riflessioni sulla morte mentre ci sta andando incontro. Nessuno sconto, nessuna salvezza, solo qualche appiglio ogni tanto.

* Incapacità di letteratura mondo/risposta. Dopo Kafka il romanzo non può più finire (Giràrd). La complessità del mondo moderno esula dalla letteratura, ma anche dalla comprensione umana. Se il romanzo cerca un qualche tipo di verità è destinato a fallire. Non provarci neanche non è molto più consolante.

* È consolante o meno che anche un premio Nobel della letteratura si ponga costantemente domande simili alle mie? È consolante condividere i dubbi, non lo è l’assenza di risposte. Ma non dev’essere consolante: il fascino è proprio nell’assenza di risposte e nella continua interrogazione (anche questo pensiero è più o meno espresso con altre parole dallo stesso Kertész – e da molti altri, ok). Di più: non è l’assenza di risposte, è l’impossibilità di risposte, e il continuare a interrogarsi.

* Amara constatazione che anche Kertész confonde le critiche a Israele per antisemitismo, ma scusabile dalla sua posizione mentale e storia personale. Pensieri più che coerenti e condivisibili nei suoi romanzi (e in altri punti del diario) sugli ebrei in generale. Salto logico solo quando si tocca Israele. Paura dello sterminio.

* In generale riuscita migliore attraverso la narrativa (diario fin troppo scoperto e nudo – ma proprio per questo affascinante e contrasto evidente), come è giusto che sia. Tentativo di romanzo finale molto breve ma molto interessante, stile debitore di Bernhard (quanti debitori ci sono? ha inventato uno stile? quanti altri hanno modificato la letteratura in questo modo? Poe? Kafka? Joyce? DeLillo?)

* Una citazione (potrebbero essere innumerevoli, dalle inevitabili domande sull’incomprensibile/indecidibile ai più banali appunti quotidiani che trascendono a constatazioni esistenziali, passando per l’intero secondo tentativo di romanzo):

L’ospedale come istituzione ispirata ad Auschwitz, ma solo per l’organizzazione (o la strutturazione), e certo non per l’obiettivo, per l’intenzione. Il personale – medici, infermieri e tutti gli altri – è composto da persone consapevoli del loro dovere, ma sfinite, e tutti loro vogliono il tuo bene, pensa. Il diavolo si cela soltanto nella dinamica inarrestabile dei turni, i tropi malati e la situazione che piano piano diventa ingestibile e che conduce ogni buona intenzione in un’unica direzione, escludendo una volta e per tutte la critica radicale, ogni possibilità di cambiamento; l’unico modo possibile di agire, qui, è collaborare. Queste premesse portano a un certo modo di pensare; se vediamo queste premesse nel loro dinamico corrompersi e se consideriamo l’impellenza dell’azione, allora al limite estremo della riflessione spunta il profilo di Höss che, con l’introduzione del gas Zyklon B, voleva solo “umanizzare” la brutalità del procedimento, ma contemporaneamente ne aveva anche accelerato il “funzionamento”. Chi comprende questo modo di ragionare comprende l’epoca in cui viviamo, pensa.