DFW on Wittgenstein

Era questo il dilemma di Wittgenstein: o si tratta il linguaggio come un puntino infinitamente piccolo e denso, o lo si lascia diventare il mondo — il mondo esterno, e tutto ciò che contiene. La prima ipotesi equivale a una cacciata dall’Eden. La seconda sembra più promettente. Se il mondo stesso è un costrutto linguistico, non c’è nulla «al di fuori» del linguaggio che il linguaggio debba raffigurare o a cui debba riferirsi. Questa ipotesi permette di evitare il solipsismo, ma porta dritti al dilemma postmoderno, post-strutturalista, di dover negare a noi stessi un’esistenza indipendente dal linguaggio. In genere si ritiene che sia stato Heidegger a condurci a questo dilemma, ma mentre scrivevo La scopa del sistema ho capito che era Wittgenstein il vero architetto della trappola postmoderna. È morto proprio quando stava per cominciare a trattare esplicitamente la realtà come un’entità linguistica invece che ontologica. Questa posizione eliminava il solipsismo, ma non il terrore. Perché siamo ancora bloccati. La tesi delle Ricerche è che il problema fondamentale del linguaggio è, cito testualmente: «Non mi ci raccapezzo». Se fossi separato dal linguaggio, se potessi in qualche modo distaccarmene, arrampicarmi da qualche parte e guardarlo dall’alto, osservarne la topografia, per così dire, potrei studiarlo «obiettivamente», smembrarlo, decostruirlo, capire le sue dinamiche, i suoi confini e le sue mancanze. Ma le cose non stanno così. Io ci sono dentro. Noi siamo dentro il linguaggio.


[David Foster Wallace, Un’intervista estesa a David Foster Wallace, di Larry McCaffery (1993)
da Un antidoto contro la solitudine, minimum fax 2018,
trad. Sara Antonelli, Francesco Pacifico e Martina Testa]