Bong Joon-Ho

mickey17: due appunti

Tre indizi fanno una prova: gli USA fanno male a Bong Joon-Ho l’America: i suoi film americani sono i suoi meno interessanti, più didascalici*; grotteschi ma non abbastanza da far ridere o inorridire o riflettere, forse una semplice rappresentazione realistica degli USA visti dalla Sud Korea.
Mickey17 non è un film brutto, ma è sbagliato: inizia bene ma poi si perde, le metafore politiche e ambientali sanno di già visto e sono troppo didascaliche, è come le parodie superate dalla realtà, dramma già vissuto in Italia da più di vent’anni. Mi ha ricordato Don’t look up** in questo: buone intenzioni, bravi registi, risultato mediocre.
Ruffalo/Trump (le labbra, le movenze, i cappellini rossi, persino il tentato omicidio) è meno esagerato del Trump vero, la distopia fantascientifica per certi versi è meno distopica degli USA contemporanei, anche il lieto fine, nel 2025, dopo la rielezione e tutto quello che ne consegue, suona stonato. Non per niente, la scena migliore del finale è quella onirica della ristampa del politico da parte della moglie, alle parole di (qualcosa come) “So che lo rivolete”. Fuori tempo massimo, ma funziona sempre: la nostalgia per l’uomo forte è più presente che mai, anche se Trump è già stato rieletto.
Posso anche capire il finale utopico che mostra un’alternativa: la convivenza pacifica con un mondo incontaminato, ma sembra davvero qualcosa che non ha niente a che fare col mondo nel quale viviamo, dove anzi si sovrappone comunque con l’idea estrattivista/colonialista di altri pianeti (un’idea, manco a dirlo, portata avanti sempre dagli stessi, nonostante sia completamente delusional, oltre che colonialista).
Persino la premessa che una nuova tecnologia possa creare problemi etici/legali e per questo essere bandita/limitata incrina la sospensione dell’incredulità in un mondo che corre al riarmo nucleare, che glorifica crimini contro l’umanità, che ignora ogni tribunale internazionale.
Forse il problema sta proprio qui: ci si trova fin da subito in un mondo grottesco ma allo stesso tempo fin troppo buono e positivo rispetto al nostro, fin dalle premesse. Anche le cattiverie e le storture sistemiche, i potenti e malvagi e persino gli uomini comuni con le loro indifferenze crudeli, tutto nel film sembra quasi un sollievo, una favola per bambini rispetto a un qualunque telegiornale. Quindi ogni critica politica o sociale scivola via, innocua, così come scivola via anche ogni slancio utopico e il film stesso, inutilmene lungo (ma questo ormai vale per il 90% delle produzioni statunitensi) e involuto (sembra non decidersi su che genere prendere, che storia raccontare, in bilico fra tutte quelle possibili – ma questo per me è il problema minore, anzi potrebbe anche essere un pregio se riuscisse nell’intento), dopo una premessa che poteva anche sembrare interessante, quantomeno dal punto di vista esistenziale.
I punti che rimangono validi infatti sono quelli che riguardano i(l) protagonista/i, la sua condizione esistenziale che esplode con lo sdoppiamento, con la paura di morire che torna a fare capolino quando si rischia di perdere definitivamente la propria identità oltre che il proprio corpo (come se fossero separabili***). In questo senso, la domanda che si continua a pensare e fare ma non a rispondere rimane vuota fino a quando non c’è qualcosa in palio, e per questo Mickey18 torna a essere un personaggio tragico e non più farsesco, perché ha qualcosa in palio: anche lui, prima di farsi saltare in aria, ha paura di morire.

*forse si potrebbe fare un discorso simile per Lanthimos, ma lì credo dipenda molto anche dalla presenza o meno di Efthimis Filippou alla sceneggiatura

**che aveva problemi ulteriori oltre a non funzionare né nei momenti comici né in quelli drammatici (tranne la scena, la migliore per me, del generale (credo) che frega i soldi della macchinetta): quello di sbagliare metafora per il riscaldamento climatico (concesso che sia molto difficile trovare una metafora giusta per l’iperoggetto per definizione)

***si potrebbe ragionare anche sulla narrazione del dualismo mente-corpo, anche questo in versione molto classica e poco problematica, rispetto ad esempio a film come The substance (altrettanto didascalico per altri versi, se si vuole portare avanti il discorso del new literalism)

Nuove lingue per nuovi contesti

L’altro giorno, vedendo Parasite (il nuovo film di Bong Joon-Ho, capolavoro), ho fatto caso ai personaggi che ricorrevano all’inglese per frasi fatte (presumibilmente mutuate a loro volte da film) e contesti preconfezionati, come ad esempio i colloqui di lavoro.
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